LA LINEA AEROTATTICA DELL’AERONAUTICA MILITARE
DALL’ESPERIENZA OPERATIVA ALLE ESIGENZE ATTUALI
PER LE OPERAZIONI FUTURE
Gen. S.A. Leonardo Tricarico
Prof. Gregory Alegi
Lo studio parte dalla relazione tra potere aereo e tecnologia per analizzare quindi le lezioni identificate e utilizzarle per definire le caratteristiche di un velivolo aerotattico in grado di sostituire le linee Tornado e AMX, delle quali è indispensabile la sostituzione.
L’Aeronautica Militare ha nell’aerospazio la propria competenza ambientale e nell’applicazione del Potere aereo la propria ragion d’essere. Questo consente molte opzioni in termini di tipologie di aeromobili ma la obbliga a mantenere le capacità cruciali (e dunque più complesse) sotto pena di una irrilevanza operativa con immediate ripercussioni sul piano politico (assenza da tavoli decisionali, limitata capacità di indirizzare la pianificazione, minor credibilità delle proposte).
La “legge promozionale” del 1977 consentì all’A.M. di dotarsi di due velivoli aerotattici, il bireattore Tornado (progettato da Regno Unito, Germania e Italia) e di sviluppare il monomotore AMX (Italia-Brasile). Dopo la caduta del Muro di Berlino le operazioni, spesso “fuori area” e sempre “di coalizione”, sono andate moltiplicandosi. Tornado e AMX hanno esordito in situazioni molto diverse da quelle per le quali erano stati concepiti. L’analisi da noi condotta copre il periodo dal 1991 (prima Guerra del Golfo) al 2014 (rientro AMX dall’Afghanistan), e la rispondenza con i velivoli e sistemi individuati nel 1977. Ogni ciclo ha dato lezioni in termini di impiego e rilevanza (cioè applicabilità o utilità) dei velivoli disponibili.
La tardiva decisione di partecipare al dispositivo contro Saddam Hussein costrinse a utilizzare la base di Al Dhafra, tanto lontana dalla zona d’operazioni da richiedere molteplici rifornimenti in volo e assorbire un maggior numero di ore di volo. Da ciò scaturì lo studio delle piste disponibili nei potenziali teatri operativi, che concluse che ridurre intorno ai 1.000 metri la lunghezza di pista necessaria moltiplicava per 10 gli aeroporti utilizzabili. Pur con alcune penalizzazioni, l’insieme dei fattori operativi rendeva un velivolo STOVL costo/efficace in molti dei prevedibili scenari. La stessa guerra del Golfo sancì la necessità di armamento di precisione, prima ritenuto un lusso.
Durante le crisi balcaniche i caccia F-104 italiani risultarono inutilizzabili all’interno di un moderno sistema di difesa aerea o in “pacchetti” complessi. Di fatto l’Italia dovette affidare ai Paesi alleati la difesa aerea del proprio settore adriatico. Ciò sottolineò l’importanza vitale di acquisire e mantenere livelli tecnologici comparabili a quelli dei propri alleati e partner, senza “saltare” generazioni.
Dopo un ventennio di ristrutturazione, durante la crisi libica del 2011 l’Aeronautica si presentava come l’unica forza aerea europea in grado di fornire (sia pure con numeri limitati) l’intera gamma di capacità per tutti i ruoli e le missioni necessarie, comprese quelle critiche quali rifornimento in volo, osservazione-ricognizione (con i velivoli senza pilota Predator), soppressione delle difese aeree (con i Tornado ECR-IT). Se ciò conferma la bontà del processo di trasformazione avviato dopo il Golfo, rinforza pure la percezione della necessità vitale di conseguire e mantenere i più alti livelli qualitativi nonostante le continue riduzioni di bilancio.
Tale quadro è reso ancor più difficile da programmi di sviluppo di alto costo e lunga durata e della durata del ciclo di vita dei sistemi aerei (il Tornado uscirà di linea 57 anni dopo il varo del programma). Ciò impone scelte lungimiranti, dalle quali ci si possa attendere non perfezione “statica” (cioè finalizzata alla pura situazione iniziale) ma adattabilità dinamica a contesti certamente diversi da quelli ipotizzati in fase di definizione.
Il processo che offre le maggiori prospettive di adattabilità parte dall’identificazione dei requisiti, per passare quindi al confronto con quanto disponibile e, in caso di bassa rispondenza, alla valutazione di tempi e risorse per sviluppare altri sistemi con altri Paesi con esigenze sovrapponibili o coincidenti. Le caratteristiche richieste a un futuro velivolo aerotattico per l’Italia si possono identificare in:
Specifiche (tecnico-operative)
- Bassa osservabilità (“Stealth”) (*)
- Capacità ISR avanzate interne (*)
- Capacità di elaborazione e gestione automatica delle informazioni da qualsiasi fonte acquisite (*)
- Massimizzazione del carico utile senza degrado prestazionale o incremento segnatura (*)
- Software ad architettura aperta, per facile integrazione di nuovi sistemi e aggiornamento senza sostituzione di hardware (*)
- Capacità di operare in rete con altri sistemi di qualsiasi ambiente (cd. “netcentricità”) (*)
- Decollo/atterraggio corto/verticale (*)
- Sistemi avanzati di scambio dati (cd. datalink)
- Radar a scansione elettronica
- Elettronica avanzata
- Armamento di precisione, di livello tecnologico non inferiore a quello della piattaforma.
Generali (Logistico-gestionali)
- Interoperabilità con Paesi amici
- Tempistica fasata con il ciclo di vita delle attuali linee operative
- Ampia produzione, per economie di scala (produzione, logistica, supporto, addestramento)
- Ampia produzione, per possibilità di gestione degli acquisti (rinvii, anticipi, eventuali riordini per sostituzione perdite etc).
LA LINEA AEROTATTICA DELL’AERONAUTICA MILITARE
DALL’ESPERIENZA OPERATIVA ALLE ESIGENZE ATTUALI
PER LE OPERAZIONI FUTURE
- Tecnologia e potere aereo
Forse perché per l’uomo la conquista dell’aria è possibile solo attraverso la tecnologia, in nessun campo il rapporto tra strategia e tecnica è così stretto ed evidente come in aeronautica. Molto più che i fucili e le navi, gli aeromobili militari nascono in funzione di specifici modi di concepire le operazioni aeree e della possibilità effettiva di tradurre tali concetti in mezzi efficaci ed efficienti.
Cent’anni fa, il successo era rappresentato dal mero fatto di volare abbastanza a lungo da sperimentare le possibilità di un impiego indifferenziato. In breve, l’obiettivo di influenzare (quando non determinare) dal cielo le situazioni sulla superficie solida o liquida, teorizzato in modo sistematico sin dal 1921 con il decisivo contributo dell’italiano Giulio Douhet (1869-1930) spinse lo sviluppo tecnologico, che nell’arco di una sola vita portò l’uomo a volare da pochi metri rasoterra (1903) fino allo spazio (1961). A sua volta, ciò rese presto possibile, ed in parte necessario, differenziare gli aerei in base al tipo di missione assegnata: addestramento, ricognizione, osservazione, appoggio al suolo, caccia, bombardamento, trasporto (civile e militare), pattugliamento, soccorso ed altri aggiunti man mano.
Come per ogni altro dominio operativo, le capacità crescenti hanno trasformato i semplici aerei di una volta nei sistemi avanzati di oggi, nei quali, anzi, l’aeromobile in sé è spesso declassato a mera “piattaforma” per i sistemi più diversi, dal rifornimento in volo alla scoperta a distanza.
Per quanto indubbiamente comune a tutti gli ambiti, questo processo non ha comunque annullato le caratteristiche peculiari dei mezzi aerei. Ai vantaggi intuitivi della velocità (e dunque reattività) e quota (e dunque capacità di vedere più lontano, di scavalcare barriere naturali, di relativa protezione dalla reazione avversaria), gli aeromobili hanno aggiunto nel tempo quelli della flessibilità (come capacità di operare simultaneamente a più livelli, ma anche di spostarsi velocemente fra teatri operativi distanti tra loro) e del raggio d’azione (con annessa potenzialità di raggiungere da un’unica base molteplici località distanti da essa e tra loro stesse).
Tutto ciò ha alimentato concezioni operative sempre più ampie, che a loro volta hanno spinto l’evoluzione (tecnologica, dottrinaria, operativa) e portato ciascun ruolo a modificarsi esso stesso, potenziandosi, contraendosi, avvicinandosi ad altri o talvolta scomparendo del tutto. Tali dinamiche, mai univoche per direzione o riuscita, hanno portato nell’arco di circa un secolo allo sviluppo di un numero enorme di aeromobili.[1]
È in tale quadro dinamico, reso ancor più complesso dai programmi di sviluppo simultaneamente di alto costo e lunga durata (oramai ben superiore ai 10 anni, in campo civile e militare) e dalla lunga vita operativa (o commerciale), che devono essere fatte scelte lungimiranti, dalle quali ci si possa ragionevolmente attendere non tanto una perfezione “statica” (cioè immediatamente adatta alla sola situazione/requisito iniziale) quanto un’adattabilità dinamica a contesti che saranno certamente diversi (in misura più o meno marcata) da quelli ipotizzati in fase di definizione.
Più che identificare una specifica macchina alle cui caratteristiche si dovrà adattare il requisito, il processo che offre le maggiori possibilità di adattamento parte dunque dall’identificazione delle singole caratteristiche necessarie per confrontarle successivamente con quanto già disponibile sul mercato e, in caso di bassa o nulla rispondenza, con i tempi e le risorse disponibili per sviluppare nuove macchine, da soli o con altri Paesi portatori di esigenze sovrapponibili o coincidenti.
- La “legge promozionale” 38/1977 e la struttura dell’Aeronautica Militare
Dopo la Seconda guerra mondiale l’Aeronautica Militare utilizzò a lungo aeromobili di concezione straniera, in parte per il ritardo tecnologico accumulato dall’industria nazionale e in parte perché nella fase iniziale e più acuta della Guerra Fredda gli Stati Uniti fornirono gratuitamente grandi quantità di materiali attraverso il Military Aid Program (MAP) e il successivo Mutual Defense Assistance Program (MDAP) o, addirittura, ne commissionarono la costruzione in Italia con quello di Off-Shore Procurement (OSP). Il meccanismo conservava la proprietà agli Stati Uniti ma consentiva all’Italia di sostenere i soli costi operativi. Benché gli stanziamenti nazionali per la Difesa si mantenessero costantemente sotto il livello raccomandato dalla NATO, alla quale l’Italia aveva aderito sin dal 1949, le forniture statunitensi permisero di superare le limitazioni punitive imposte dal trattato di Parigi e di ricostruire un’intelaiatura organizzativa completa. Così risolte le principali esigenze operative, l’Aeronautica Militare poté sostenere la ricostruzione dell’industria nazionale, ridotta in condizioni assai precarie, attraverso commesse nei meno impegnativi settori degli addestratori e dell’attacco leggero. Per comprendere l’assoluta rilevanza degli aiuti statunitensi nelle loro diverse forme è sufficiente ricordare che sino al 1960 il loro valore complessivo fu di fatto pari all’importo stanziato dall’Italia.[2]
Negli anni successivi gli aiuti diminuirono gradualmente per un complesso di ragioni, tra le quali l’allontanarsi della fase più acuta della Guerra Fredda, il crescente impegno statunitense in Vietnam e il maggior costo dei sistemi d’arma. Per l’Aeronautica Militare ciò coincise grosso modo con la decisione di seguire la Germania Occidentale nella scelta di acquisire il caccia Lockheed F-104G Starfighter attraverso quello che fu allora il maggior programma di collaborazione industriale in Europa (per numeri, ma anche per l’ampiezza della partecipazione). Se il caccia consentì un deciso salto di qualità e sostenne, tra l’altro, un massiccio rinnovamento degli impianti industriali, il suo alto costo costrinse a ridurre gli organici (ciascun gruppo scese da 25 a 18 aerei) e impedì di sostituire completamente i materiali MDAP (che rimasero in servizio fino agli anni Settanta).
Per la prima volta si pose, insomma, la questione di come mantenere gli impegni assunti in ambito internazionale e difendere la posizione che il Paese stava finalmente riconquistando. Complice anche l’avviarsi di una stagione di pesante inflazione, nell’arco di un decennio si venne presto creando una situazione che l’economista Pietro Armani, analizzandola nel 1976 in una prospettiva economico-industriale, definì senza mezzi termini «assistenziale e vegetativa».[3] Si trattava di conclusioni non dissimili da quelle contenute nei vari documenti resi pubblici dalle Forze Armate in quegli anni. Nel Libro Bianco pubblicato dall’Esercito nel 1973 si diceva con chiarezza che «la crescente influenza del processo tecnologico sulle strutture delle Forze Armate ha comportato un drammatico aumento dei costi di acquisizione e di esercizio degli armamenti e degli equipaggiamenti reso ancora più sensibile dal processo inflazionistico che ha investito l’economia mondiale. Ne è scaturito un costante decadimento dell’efficienza operativa dello strumento militare, non fronteggiabile con le normali assegnazioni di bilancio.» L’anno successivo il Libro Azzurro dell’Aeronautica Militare quantificava, in forma più asettica, una situazione non diversa: per l’ammodernamento della linea era disponibile circa un sesto del bilancio, cioè la metà di quello ritenuto necessario.
Per affrontare la situazione, la Marina Militare individuò lo strumento di stanziamenti aggiuntivi mediante una legge ad hoc per la «costruzione e ammodernamento dei mezzi navali della Marina Militare», dotata di 1.000 miliardi per gli esercizi 1975-1984 (l. 22 marzo 1975, n. 57. Due anni dopo, provvedimenti analoghi finanziarono l’«ammodernamento dei mezzi dell’Aeronautica» (l. 16 febbraio 1977, n. 38, con 1.000 miliardi per il 1977-1986) e l’«ammodernamento degli armamenti, dei materiali, delle apparecchiature dell’Esercito» (l. 16 giugno 1977, n. 372, con 1.115 miliardi per il 1977-1986). Per rendere più accettabile lo stanziamento straordinario, al rinnovo delle dotazioni fu abbinata la promozione dell’industria italiana (da cui la diffusa abitudine di chiamarle “leggi promozionali”), che si traduceva nell’esplicita previsione di privilegiare i prodotti nazionali.
Questi finanziamenti straordinari – gli ultimi approvati in Italia, dato che la recentissima “legge navale” del 2013 si limita a riservare alla Marina fondi della Difesa, alla quale vengono peraltro imposti ulteriori tagli lineari – presentavano forti limiti legati alla mancanza di politica unitaria, sia in termini di visione organica degli obiettivi della politica nazionale di difesa sia all’interno delle singole Forze Armate. Nonostante alcuni tentativi di facciata, i programmi si presentavano come sommatorie di singole esigenze solo genericamente riconducibili a specifiche priorità, missioni e funzioni assegnate dal governo italiano o dalla NATO. Nel giro di quattro anni il Capo di Stato Maggiore della Difesa (SMD) riferì al Consiglio Supremo di Difesa che questo e l’alta inflazione avevano contribuito a diminuirne l’efficacia.[4]
In ogni caso, le scelte della “legge aeronautica” definirono la forma e l’equipaggiamento della Forza Armata per oltre due decenni. Il successo maggiore fu il bimotore d’attacco MRCA Tornado, sviluppato a partire dal 1968 con un programma trinazionale al quale l’Italia aveva aderito unendosi al Regno Unito e alla Germania Occidentale. I fondi della legge 38/1977 finanziarono la produzione dei 100 esemplari per l’Aeronautica Militare, entrati in servizio a partire dal 1982 e impiegati con successo in tutti i cicli operativi seguiti alla caduta del muro di Berlino. A tale indiscusso successo si affiancarono la produzione dell’addestratore Aermacchi MB.339, derivato a basso rischio del già affermato MB.326, e lo sviluppo del cacciabombardiere AMX, nato attorno alla collaborazione interna tra Aeritalia (IRI-Finmeccanica) e Aermacchi, successivamente ampliata al Brasile. La difficoltà di commercializzare tali velivoli, rimasti al di sotto sia dei predecessori (MB.326 e, in parte, famiglia G.91) sia delle ipotesi di esportazione, costrinsero a distribuire i costi non ricorrenti su una produzione limitata, innalzando i costi unitari. Da ciò scaturì la constatazione della difficoltà di sviluppare e impiegare su base nazionale velivoli complessi e/o avanzati.
In retrospettiva, la decisione più significativa fu però la rinuncia a partecipare al nascente programma General Dynamics F-16, al quale nel 1975 avevano aderito tutti i Paesi europei (salvo la Germania) già costruttori o utilizzatori dell’F-104G. La decisione sostanziale risaliva in realtà al 1966, con l’avvio del programma per l’F-104S, derivato del vecchio Starfighter con introduzione del missile a medio raggio e guida attiva AIM-7 Sparrow (successivamente sostituito dal Selenia Aspide nazionale). Concepito come aggiornamento a basso costo, grazie alla possibilità di sfruttare attrezzature produttive già esistenti e in ossequio alle perenni limitazioni di bilancio, il programma F-104S era anche uno dei pilastri della fusione tra Fiat Aviazione e Aerfer dalla quale nel 1969 nacque Aeritalia. La prospettiva industriale fu alla base anche dell’ultimo acquisto di F-104S fatto nel 1976, quando la difficile situazione di Aeritalia determinò l’uscita della Fiat dal suo azionariato.[5] Queste motivazioni, per quanto non prive di logica aziendale, impedirono di fatto all’Aeronautica Militare di cogliere il salto tecnologico dell’F-16, a partire dalla straordinaria manovrabilità consentita dalla “stabilità artificiale” ottenuta controllando un’instabilità voluta attraverso l’innovativo sistema di comandi computerizzati. L’F-16 rappresentò, insomma, una discontinuità che rese immediatamente obsoleti gli approcci evolutivi come quello del Mirage F.1 scelto invece dai francesi e grande sconfitto nel cosiddetto “contratto del secolo”. Da questa sconfitta la Francia trasse lo stimolo per dare vita al Mirage 2000, anch’esso con comandi di volo elettronici. Nel giro di pochi anni l’Italia, invece, andò sganciandosi sempre più dai Paesi europei con i quali si era trovata per circa un decennio allo stesso livello tecnologico.
L’inadeguatezza tecnologica si evidenziò come limite operativo sin dalla crisi in Libano del 1983, quando attacchi drusi alle basi del contingente di pace italiano fecero sorgere la necessità di fornire ad esso una qualche protezione aerea.[6] In quella missione, tipicamente di pace, la scarsa autonomia e mancanza di capacità di rifornimento in volo dell’F-104S costrinsero a rinunciare all’impiego del 155° Gruppo da basi inglesi a Cipro, per il quale furono comunque svolte per circa 40 giorni le necessarie attività preparatorie. Negli anni Ottanta-Novanta per l’Italia non avere colto il salto tecnologico rappresentato da F-16/Mirage 2000 si tradusse quindi in crescente difficoltà a operare con i propri alleati, arretratezza concettuale e persino in ritardo industriale.
- L’esperienza operativa e le lezioni apprese
Il cosiddetto “crollo del Muro di Berlino” del 9 novembre 1989 chiuse una fase nella storia dell’Europa, di grande valenza simbolica per il superamento di un simbolo particolarmente odioso della divisione del continente scaturita dalla Seconda guerra mondiale, e si tradusse in breve tempo nella ben più importante dissoluzione dell’Unione Sovietica, sancita il 26 dicembre 1991 dopo il fallimento del colpo di stato tentato in agosto. Banalizzando il titolo di un saggio di successo,[7] frettolosi analisti parlarono di “fine della storia” e lasciarono immaginare un panorama politico globale caratterizzato dall’assenza di avversari, tensioni e conflitti.
Il definitivo superamento della Guerra fredda e della contrapposizione tra i blocchi, in sé positivo, innescò in realtà una nuova fase caratterizzata da marcata instabilità, moltiplicarsi di crisi locali, indebolimento delle alleanze tradizionali, allentarsi dell’influenza sui Paesi satelliti da parte delle superpotenze di riferimento ed emergere di potenze regionali poco o per nulla controllabili. Prima che questo fosse compreso, la caduta del Muro avviò in tutti i Paesi un processo di riduzione dei bilanci militari e una continua serie di tagli in tutti i settori, all’insegna del mantra “fare di più con meno”. Ciò si tradusse in tagli a più riprese, slegati però da una reale pianificazione basata sull’analisi di sfide e ambizioni, da correlare quindi al ripensamento dottrinario e alla scelta di sistemi idonei e compatibili con le risorse effettivamente disponibili.
Abbandonata rapidamente l’idea del conflitto atomico generalizzato (la “terza guerra mondiale”) che per decenni era stata la pietra d’angolo di ogni scenario politico-militare, con annessa atrofizzazione del pensiero strategico, si fece largo un nuovo paradigma, riassumibile con la pur abusata frase “il cambiamento è l’unica costante” e caratterizzato dalla frequenza di operazioni circoscritte ma anche frequenti. Questa trasformazione interessò subito l’Aeronautica Militare, che dal 1991 si trovò proiettata in operazioni reali per la prima volta in 46 anni.
3a. La guerra del Golfo (“Operazione Locusta”)
Alle 6.25 del 18 gennaio 1991 dalla base di Al Dhafra, negli Emirati Arabi Uniti, otto Tornado decollavano per la prima missione di guerra dell’Aeronautica Militare. Era iniziata l’operazione Desert Storm, l’attacco per liberare il Kuwait invaso dal dittatore irakeno Saddam Hussein, contro il quale sotto la guida degli Stati Uniti si era raccolta la più vasta alleanza che il mondo abbia mai conosciuto.
L’Italia vi aveva aderito dopo un iter decisionale particolarmente travagliato, segnato dai consueti bizantinismi della politica nazionale. Dopo l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq (2 agosto 1990), le risoluzioni ONU di condanna e di imposizione di un embargo marittimo portarono infine allo schieramento nel Golfo Persico di un gruppo navale italiano, al quale si accompagnò la necessità di copertura aerea. La precedente crisi in Libano aveva evidenziato il limitato valore operativo dell’F-104S, costringendo a rinunciare all’impiego del 155° Gruppo da basi inglesi a Cipro in appoggio al contingente italiano in Libano a causa della scarsa autonomia e della mancanza di capacità di rifornimento in volo.
Per l’Iraq il problema era amplificato dalle aree molto più vaste di quelle consentite. Il compito fu dunque assegnato ai cacciabombardieri Tornado, all’epoca gli aerei più moderni a disposizione dell’Aeronautica Militare, che vi aveva condotto un programma addestrativo di crescente impegno qualitativo, compreso il rifornimento in volo (prima “buddy-buddy”, tra aerei similari, e poi dalle aerocisterne) e la partecipazione all’esercitazione Red Flag negli Stati Uniti. I reparti Tornado erano perciò meglio degli altri in grado di integrarsi in un dispositivo complesso quale quello che andava delineandosi. Alcuni F-104G da ricognizione furono poi schierati sul fronte settentrionale, per missioni con la ACE Mobile Force/Air della NATO rischierata in Turchia per fronteggiare una possibile aggressione irachena. Tra il 6 gennaio e il 10 marzo 1991 effettuarono 384 missioni per 515h di volo.
Il 25 settembre 1990 dodici Tornado, tratti dai tre stormi 6º, 36º e 50º e velocemente adattati (anche nella colorazione sabbia) presso il 1º RMV di Cameri per operare in ambiente desertico, poterono trasferirsi negli Emirati Arabi Uniti, lontano dal futuro teatro d’operazioni ma unico aeroporto idoneo disponibile. Era il primo passo della missione “Locusta”. Inquadrati nel “Distaccamento A.M. di Al Dhafra” (poi “Reparto Autonomo Volo Golfo Persico”), i Tornado iniziarono i voli addestrativi tre giorni dopo e il l8 ottobre iniziarono missioni catalogate come “difesa aerea”. In questa prima fase furono fatte 870 sortite per 1.540h 20’ di volo per compiti di appoggio e protezione al 20º Gruppo Navale. Contrariamente a quanto si era sperato negli ambienti politici italiani, il massiccio rischieramento di forze nel Golfo non indusse Saddam Hussein a ritirarsi dal Kuwait. Il 28 novembre il Consiglio di Sicurezza dell’ONU alzò la posta, fissando un ultimatum al 15 gennaio 1991.
Quando anche questo scadde, il 16 gennaio 1991 la coalizione internazionale passò all’offensiva, sfruttando la propria enorme superiorità aerea per devastare le installazioni e gli obbiettivi militari irakeni, a partire dalla disarticolazione dei sistemi di comando e controllo e della difesa aerea. In quella prima notte gli italiani però non c’erano, bloccati a terra dall’ennesima esitazione politica. L’incertezza durò un giorno solo, sufficiente però agli Stati Uniti per infliggere agli italiani alcuni duri schiaffi morali escludendoli financo dalle sale di comando.
Superato quest’ultimo ostacolo, il 18 gennaio gli italiani poterono infine decollare insieme ai propri alleati. Degli otto Tornado, uno abortì subito dopo il decollo e sei non poterono effettuare il previsto rifornimento in volo per il maltempo. Pur rimasto solo, l’ultimo Tornado, pilotato dal magg. Gianmarco Bellini con il navigatore cap. Maurizio Cocciolone, riuscì ugualmente a giungere sull’obbiettivo ma fu abbattuto dalla violentissima reazione contraerea, dopo aver sganciato il carico di bombe convenzionali. L’esordio operativo fu dunque drammatico, anche se i piloti furono poi liberati il 4-5 marzo.
Grazie alla capacità del Tornado di adattarsi a profili d’impiego del tutto diversi da quelli previsti in sede di progetto, il ciclo operativo proseguì però senza perdite per un totale di 226 sortite in cui furono lanciate 565 bombe convenzionali (cioè “di ferro”, “stupide” o “non di precisione”) contro postazioni della difesa aerea, centri di comunicazione, forze corazzate e reparti di guerra chimica. L’enorme pressione esercitata per via aerea per quasi un mese e mezzo ammorbidì a tal punto le difese irakene da farle crollare rapidamente al primo attacco delle forze di superficie: si era instaurato un clima di terrore tale che un plotone irakeno giunse ad arrendersi a una troupe della rete televisiva americana CNN, la stessa che nei giorni del conflitto era venuta a simboleggiare l’immediatezza delle comunicazioni nell’era satellitare. Non solo il capo di Stato Maggiore poteva tenersi in contatto con le forze nel Golfo, ma tutto il mondo seguì in tempo reale l’esito delle operazioni attraverso le trasmissioni in diretta satellitare della CNN da Baghdad.
L’Operazione Locusta confermò la bontà della scelta a suo tempo effettuata con il Tornado e, ancor più, del percorso intrapreso per sfruttarne le capacità. In particolare, l’ottima prestazione complessiva del Reparto Autonomo Volo, soprattutto nella prima e più difficile fase delle operazioni, dissipò i dubbi che – ragionevolmente – persino alcuni degli stessi partecipanti avevano nutrito di fronte al ritorno agli impegni reali dopo un intervallo di oltre 45 anni. Proprio quest’ultimo fatto fornì lo spunto per importanti riflessioni, relative sia agli aspetti operativi sia a quelli tecnologici.
La prima lezione, di carattere generale, riguardava il concetto di “coalizione”, destinato a superare in breve quello di “alleanza” (che, per l’Italia, significava solo NATO) e comunque più ampio di esso. Proprio perché a geometria variabile, con inserimento di Paesi e forze armate con le quali non vi sono rapporti permanenti o regolari, la coalizione richiede un più alto livello di interoperabilità, penalizzando le soluzioni nazionali o comunque diverse dagli standard.
Sotto il profilo operativo, la tardiva decisione politica che aveva costretto il contingente italiano a operare da Al Dhafra, con le annesse complicazioni di rifornimento in volo, portò negli anni successivi lo Stato Maggiore a riflettere sulle implicazioni operative della necessità di operare da piste lunghe (3.000 metri, secondo lo standard NATO) e, in genere, da basi complesse. L’analisi confermò che a distanza ragionevole dai prevedibili scenari operativi esisteva un numero relativamente limitato di basi adatte ai velivoli tattici in servizio (Tornado, F-104, AMX) o di prevista adozione (Eurofighter), e che tali basi sarebbero verosimilmente state utilizzate in primo luogo dagli alleati “pesanti” o comunque dai Paesi più rapidi a unirsi alle coalizioni. In alcune aree geografiche, a partire dall’Africa, la disponibilità di piste della lunghezza intorno ai 1.000 metri aumentava di un fattore di 10. La minor distanza dall’area di operazioni avrebbe inoltre ridotto la durata del volo, non solo riducendo le ore di volo dirette ma anche risparmiando il costo diretto e indiretto del rifornimento in volo, migliorando il rapporto tra le ore di volo “utili” e quelle impiegate “in transito”, aumentando la presenza (“persistenza”) sul bersaglio, moltiplicando il numero di voli effettuabili da un velivolo nell’unità di tempo. Di fatto, anche in presenza di carico utile minore e costo maggiore, l’insieme di questi fattori operativi rendeva un velivolo a decollo/atterraggio corto e/o verticale (STOVL), costo/efficace in una certa percentuale dei prevedibili scenari operativi. Da ciò discendeva l’opportunità di disporre di una flotta mista a decollo convenzionale (CTOL) e corto/verticale (STOVL).
In termini di tecnologia, la scelta del Tornado fatta oltre vent’anni prima si confermò molto valida, nonostante l’impiego molto diverso da quello ipotizzato in origine, in particolare dopo il passaggio alle alte quote per ovviare al pesante tiro contraereo e alle difficoltà del sistema “terrain following” sulla sabbia del deserto. Il ruolo delle armi guidate – che, in realtà, rappresentarono circa un decimo del totale – spostò l’attenzione dalla precisione della piattaforma (altissima, per il Tornado), a quella del sistema (limitata dall’uso di bombe convenzionali), con annesse considerazioni sul rapporto costo/efficacia, soprattutto per il costo complessivo delle sortite/ore di volo da generare per poter conseguire il risultato. Come ricordò anni dopo il gen. s.a. Stelio Nardini, Capo di Stato Maggiore all’epoca del Golfo, l’Aeronautica Militare aveva in passato considerato non necessario disporre di armamento di precisione, annullando ad esempio la prevista integrazione sull’AMX del missile AGM-65 Maverick a guida elettro-ottica. Solo dopo la guerra del Golfo fu riconosciuto l’errore di aver rinunciato all’armamento di precisione.
3b. Le crisi balcaniche
Se la guerra del Golfo fu un intervento “fuori area” volto al ristabilimento dell’ordine giuridico internazionale, ma ben limitato, gli anni Novanta portarono alla destabilizzazione dell’area balcanica, direttamente confinante con l’Italia e dunque portatrice di minacce dirette e indirette alla sicurezza nazionale.
Un primo ciclo di intervento riguardò l’Albania, dove il collasso della struttura statale si tradusse innanzi tutto in una pesante ondata migratoria clandestina con annessa dimensione criminale. Il contrasto a queste pur gravi tematiche non coinvolse la componente aerotattica, ma vide l’intenso impiego delle linee di supporto per compiti di pattugliamento, trasporto e soccorso, sia sul mare che all’interno stesso del Paese.
La disintegrazione della Jugoslavia, che gli analisti avevano da tempo individuato quale possibile esito ultimo della morte di Tito, si tradusse in tre distinti conflitti a base etnico-nazionalista prima in Croazia (1991-1994), poi in Bosnia (1992-1995) e quindi in Kosovo. In quanto direttamente confinante con la Jugoslavia, l’Italia fu coinvolta inevitabilmente in queste crisi, la cui brutalità fu segnalata dall’abbattimento (15 settembre 1992) di un bimotore G.222 dell’Aeronautica Militare che trasportava aiuti umanitari alla città di Sarajevo sotto assedio serbo. Il doloroso episodio, costato quattro vittime, sottolineò la insufficienza delle etichette tradizionali di “pace” e “guerra” nella prospettiva dei diversi soggetti coinvolti.
La decisione della comunità internazionale di contenere la crisi portò ad allestire un dispositivo navale in Adriatico (operazione Sharp Guard) e a dichiarare il divieto di sorvolo di ampi spazi aerei dell’ormai ex Jugoslavia. In questa seconda operazione, battezzata Deny Flight, l’Italia contribuì in termini logistici, ospitando sui propri aeroporti reparti aerei dei diversi paesi partecipanti. Nonostante la vicinanza del teatro operativo permettesse teoricamente la partecipazione dei caccia italiani, di fatto la tecnologia degli F-104S si dimostrò non interoperabile nel dispositivo NATO che richiedeva lunghe crociere di protezione (CAP) e capacità di scambiare dati con gli aerei radar AWACS o i caccia di altri Paesi alleati. Di fronte alla concreta possibilità che la crisi interessasse direttamente il territorio italiano e all’allungarsi dei tempi del programma Eurofighter, la difesa aerea italiana restò di fatto affidata alle altre aviazioni europee, sia pure senza invocare formalmente la difesa reciproca prevista dall’art.5 del trattato atlantico. Fu quindi necessario individuare una serie di misure-tampone che compresero il secondo aggiornamento degli F-104S (sia pure con una standard passato dall’iniziale Estensione della Capacità Operativa alla più modesta Estensione della Vita Tecnica), l’oneroso noleggio dalla Gran Bretagna di 24 Tornado F.3 da caccia (poi utilizzati nel 1995-2004) e infine l’acquisto dagli USA di 45.000 ore di volo di F-16ADF (poi utilizzati dal 2003 al 2012).
Nella nuova logica di coalizione (o comunque multinazionale) l’approccio nazionale si dimostrava dunque costoso e penalizzante anche in termini di capacità negoziale in sede politica. Fu così appresa, in un modo assolutamente evidente, la necessità di disporre di livelli tecnologici comparabili a quelli dei propri alleati e partner. La sola capacità operativa esprimibile restava infatti quella dei Tornado, che furono chiamati a partecipare al primo ciclo operativo sulla Bosnia, battezzato Deliberate Force e iniziato il 28 agosto 1995.
La campagna aerea ebbe un ruolo cruciale nel costringere le parti a raggiungere gli accordi di Dayton (21 novembre 1995, poi ratificati il 14 dicembre a Parigi). Benché delle 3.500 sortite effettuate sulla Bosnia quelle italiane con sgancio di armamento siano state appena 27 (0,77%), il ciclo fu significativo per il primo uso italiano di armamento di precisione a guida laser, indispensabile per circoscrivere i danni ai soli obbiettivi militari e sfruttare al massimo ogni sortita. La nuova capacità, introdotta sulla scorta delle lezioni apprese durante la guerra del Golfo, sarebbe stata gradualmente estesa a tutti i velivoli tattici.
Nonostante lo schieramento dell’apposita Stabilization Force (forza di stabilizzazione, SFOR) terrestre, con annesso prosecuzione della vigilanza aerea (ribattezzata Decisive Endeavour), le aspirazioni autonomistiche del Kosovo si scontrarono con un’opposizione serba prima dura e poi sanguinosa. Questo, a sua volta, sfociò nel 1999 nel primo intervento diretto della NATO in quanto tale. Nonostante il difficile teatro operativo, la crisi fu infatti risolta prevalentemente attraverso l’uso del Potere Aereo, senza ricorso ai “boots on the ground” (truppe al suolo) che si temeva potessero sfociare in perdite proprie e nell’impossibilità di districarsi dalla crisi.
L’operazione Allied Force ebbe inizio il 24 marzo 1999, segnata dalla contraddizione tra l’adesione politica del governo italiano (per l’inevitabilità geografica ma anche per l’esplicita ricerca di accreditamento) e l’opposizione di parte della sua stessa maggioranza. Di fronte all’iniziale divieto di lancio di bombe convenzionali, per le prime tre settimane furono autorizzate solamente le missioni di Suppression of Enemy Air Defenses (soppressione delle difese aeree nemiche, SEAD). Questa capacità, introdotta su parte dei Tornado italiani in sede di aggiornamento, era particolarmente apprezzata perché serviva a neutralizzare i sistemi radar e missilistici serbi ed era quindi abilitante per effettuare qualsiasi altra missione. Anche in questo caso la tecnologia avanzata si trasformava in flessibilità politica, rendendo utile e apprezzata anche una partecipazione numericamente ridotta.
La campagna, durata 78 giorni, vide l’Aeronautica effettuare direttamente quasi 1.100 sortite tattiche e partecipare attivamente alla gestione complessiva del ciclo operativo attraverso il Comando Operativo delle Forze Aeree (COFA) di Ferrara, con ciò ottenendo una preziosa esperienza in ogni aspetto della pianificazione e conduzione di operazioni complesse. Da metà aprile fu consentita la partecipazione di Tornado e AMX, anch’essi ormai con l’armamento a guida laser. La designazione degli obbiettivi era possibile da terra oppure con un “pod” installato sul vettore o su un altro velivolo. Il rapido diffondersi dell’armamento di precisione servì a ridurre i danni collaterali, esigenza primaria in un intervento dettato da considerazioni di tipo umanitario ma anche per contenere le contestazioni politiche interne. Il frequente lancio di missili antiaerei contro i velivoli italiani confermò l’esigenza di contromisure adeguate, ma anche la crescente importanza della riduzione della signature (“firma” o “traccia”, spesso mal tradotta come “segnatura”) in termini radar e infrarossi. Di pari passo alla sensibilità politica in merito ai danni e alle vittime causati, persino all’avversario, cresceva infatti quella per i danni e le vittime subiti, potenzialmente sfruttabili dalla propaganda o dagli oppositori interni. Pur senza assicurare un’impossibile invisibilità, lo stealth (bassa osservabilità) diventava dunque un elemento abilitante per ogni nuova piattaforma, soprattutto in scenari simmetrici in termini tecnologici. La bassa osservabilità consentiva ai velivoli aerotattici di operare senza scorta diretta, anche in questo caso a vantaggio della riduzione dei numeri e della flessibilità.
Solo quando la campagna aerea ebbe portato al ritiro serbo dal Kosovo fu possibile l’ingresso di una nuova forza terrestre (KFOR), incaricata di impedire il rientro delle milizie serbe e la ripresa dei combattimenti.
Dagli eventi degli anni Novanta emersero con grande chiarezza alcune lezioni sulle quali avrebbero riflettuto gli stati maggiori di tutto il mondo, chiamati in quegli anni a immaginare nuovi scenari di sicurezza collettiva e sistemi idonei a implementarli. Ciò fu particolarmente vero per la crisi balcanica, la cui contiguità all’Italia si tradusse in una lunga presenza internazionale nella penisola (anche con significative responsabilità di difesa aerea) e in una maggior consapevolezza della struttura, dei processi decisionali e della realtà delle operazioni aeree contemporanee. Su questa esperienza, a lungo assente nelle Forze Armate italiane, si basarono lezioni e scelte cruciali di medio-lungo termine.
La più importante fu probabilmente la dimostrazione della fallacia dell’equazione tra fine della Guerra Fredda e assenza di conflitti, con il corollario della possibilità di crisi regionali non solo in Paesi remoti (il cosiddetto “fuori area”) ma anche in territori molto più vicini. La graduale riduzione dei bilanci militari rendeva cruciale spingere sulla integrazione, almeno in senso tecnico-operativo, quale premessa per le coalizioni a geometria variabile attraverso le quali operare.
Al di fuori dell’ipotesi, avanzata a puro scopo di provocazione, di una specializzazione delle forze aeree europee, che avrebbero dovuto rinunciare ad avere (o perseguire) ciascuna capacità complete per ottenere un bilanciamento a livello continentale, ciò preludeva inevitabilmente a una maggior standardizzazione dei sistemi. In questo contesto assumeva particolare importanza la capacità di ricevere e scambiare dati in modo automatico e integrato, consentendo agli equipaggi di concentrarsi sugli aspetti critici delle operazioni per ridurre la possibilità di errori e danni collaterali che l’avversario avrebbe potuto rapidamente sfruttare sotto il profilo della propaganda.
3c. Afghanistan (2001-2014)
Le operazioni militari in corso da 13 anni in Afghanistan scaturiscono da una stessa origine – gli attacchi di Al Qaeda al World Trade Center e al Pentagono dell’11 settembre 2001 – ma racchiudono in realtà cicli operativi molto diversi sotto i profili politici, militari e delle operazioni aeree.
La prima fase, avviata il 7 ottobre 2001 dai soli Stati Uniti, vide l’ingresso in Afghanistan di forze speciali USA, appoggiate da un importante dispositivo aereo comprendente bombardieri pesanti (Boeing B-52, Rockwell B-1 e Northrop B-2, che operarono anche direttamente da basi negli USA) e caccia imbarcati (Grumman F-14 e McDonnell Douglas F/A-18). Mentre la parte terrestre presentava caratteristiche innovative, in particolare per la mobilitazione in funzione antitalebana di tribù locali, in modo da evitare una presenza massiccia di truppe statunitensi, la campagna aerea ebbe un’impostazione più tradizionale. Gli obbiettivi, irraggiungibili per via terrestre data la posizione del Paese, comprendevano inizialmente difese aeree e campi talebani, per ampliarsi poi alle reti di comunicazione, comando e controllo (C3). Paradossalmente, la struttura sociale e la generale arretratezza dell’Afghanistan limitarono l’efficacia dell’offensiva aerea, costringendo a modificare l’impostazione iniziale e passare all’impiego diretto di forze terrestri statunitensi. Altra importante modifica fu il passaggio dall’azione unilaterale statunitense a quella internazionale, autorizzata dal Consiglio di Sicurezza ONU il 20 dicembre 2001 e coinvolgente anche l’Italia. Pochi giorni prima, il 15 dicembre 2001, alle operazioni si era unita la Marina Militare con gli AV-8B Harrier II+ decollati dall’incrociatore tuttoponte Garibaldi in navigazione nel Golfo Persico. Il ciclo operativo, durato circa tre mesi, contò oltre 130 sortite per poco meno 600 ore di volo operative e circa mille complessive.[8]
La sconfitta del regime talebano non comportò la fine delle operazioni, ma aprì anzi la lunga fase di scontro asimmetrico per la stabilizzazione, del tutto analogo a ogni precedente tentativo di pacificazione dell’Afghanistan. Venuti a mancare gli obiettivi strategici, in grado cioè di indirizzare l’esito del conflitto prima ancora che di decidere il corso di singole campagne o eventi tattici, le forze aeree furono chiamate a svolgere compiti che andavano dalla raccolta di informazioni, sorveglianza e ricognizione (ISR, con crescente impiego di velivoli a pilotaggio remoto) al pattugliamento del territorio, protezione delle vie di comunicazione e trasporto leggero (svolti prevalentemente a bassa quota con mezzi ad ala rotante), dal trasporto strategico e in teatro (con macchine di ogni tipo e dimensione, dal C-27J al C-17) fino al supporto tattico alle azioni delle forze di superficie. Un impiego vastissimo e capillare, sulla cui efficacia è ancora in corso un dibattito che oscilla tra quanti rimproverano alle forze aeree di non aver vinto la guerra (com’era invece accaduto in modo spettacolare nel 1991) e quanti riconoscono loro un ruolo abilitante per la campagna contro-insurrezione (COIN).
Dopo la parentesi AV-8B, il pur rilevante contributo italiano alla International Security Assistance Force (ISAF) internazionale si concentrò su un rilevante apporto elicotteristico, anche con innovative modalità interforze. Superati ostacoli di tipo essenzialmente politico, la componente aerotattica tornò in teatro solo nel 2008, prima con i Tornado e quindi con gli AMX. L’impegno, conclusosi formalmente nel giugno 2014, ha compreso 3.583 sortite per 10.526 ore di volo, è poco noto per la scelta di impostare la comunicazione sull’operazione quasi esclusivamente sulla ricostruzione e la collaborazione civile-militare.
Per poter schierare i velivoli fu innanzi tutto necessario riattrezzare la base di Herat, assegnata all’Italia in condizioni pietose: base fatta segno di fuoco di armi leggere e razzi, pista crivellata di buchi e ingombra di pecore al pascolo, mancanza di corrente elettrica, torre di controllo senza radio, nessun servizio antincendio e completa mancanza di combustibile. Il rischieramento iniziale deciso dal Consiglio dei ministri nel settembre 2008 riguardò dunque quattro Tornado, inviati in novembre sulla base di Mazar-e-Sharif in attesa della ristrutturazione di Herat. Per il divieto di usare i cannoni Mauser di bordo e l’armamento di caduta, l’impiego fu limitato al ruolo ISR attraverso il sistema di ricognizione Reccelite, i cui dati venivano poi utilizzati dalle altre componenti ISAF. La missione del Task Group Devil si concluse nel novembre 2009, dopo circa 1.100 di ore. I Tornado furono sostituiti dagli AMX del Task Group Black Cats, di base a Herat e nell’ultimo periodo operativo finalmente autorizzati a intervenire direttamente sugli obiettivi o le situazioni individuate. Fino al giugno 2014 gli AMX avrebbero totalizzato 3.100 sortite per un totale di oltre 9.000 ore di volo, con oltre 7.500 obiettivi raggiunti. Questo non significa necessariamente “distrutti”, perché in alcuni casi era sufficiente l’effetto deterrente del passaggio del velivolo (“show of presence” o “show of force”), riducendo al minimo l’esigenza di azioni a fuoco o di lancio di armi, comunque di precisione. Sotto questo profilo, al rientro della missione l’Aeronautica Militare ha segnalato come la combinazione di sistemi di precisione e attenta applicazione delle regole d’ingaggio si sia tradotta nell’assoluta mancanza di vittime civili per l’intera durata della presenza AMX.
L’esperienza afghana si può considerare del tutto anomala per la distanza e difficoltà del teatro operativo (enorme, senza accesso per via d’acqua, circondato da aspre montagne e all’interno in parte desertico), la natura dell’avversario e la molteplicità degli obiettivi (pacificazione di un territorio, ma anche riforme socio-culturali e costruzione di istituzioni nazionali). Ciò spiega la sfida di incidere su situazioni e processi tanto ampi da sfuggire alle dimensioni operative, ma anche la forte polarizzazione di giudizi sull’efficacia del potere aereo in quel teatro e la difficoltà di trarne lezioni univoche e universalmente applicabili.[9]
La prima lezione identificata riguarda l’importanza cruciale dell’ISR proveniente dal cielo, non solo come acquisizione di dati ma soprattutto per l’analisi e distribuzione dei risultati ai decisori in superficie ai fini dell’adattamento dei piani in tempo reale. Si è passati cioè dalla mera “consapevolezza” alla “comprensione” delle situazioni tattiche, creando con ciò un vantaggio “asimmetrico” nei confronti di chi tale comprensione non possiede. La seconda lezione – ma si tratta più di una constatazione – è il passaggio dalla mera “precisione” alla più stringente “discriminazione”, addirittura all’interno di obiettivi già circoscritti. Entrambe le lezioni, rese possibili dall’enorme sviluppo della capacità di comunicare e di scambiare in tempo reale grandi quantità di dati, convergono nel ridefinire l’apporto dei mezzi aerei alle operazioni terrestri, che non è più principalmente di tipo “cinetico” (cioè attraverso l’uso di armamento). La superiorità informativa ha permesso infatti di limitare il numero delle azioni a fuoco e, quando erano indispensabili, di intervenire sul solo aspetto necessario, talvolta con il solo cannone.
3d. L’operazione Unified Protector
La partecipazione dell’Italia alla campagna di Libia del 2011 – controversa sotto il profilo politico a causa degli strettissimi rapporti tra i due Paesi e del rischio di destabilizzazione, puntualmente verificatosi – è stata un’importante occasione di verifica del processo di trasformazione dell’Aeronautica Militare nei vent’anni dalla caduta del Muro e dalla dissoluzione dell’URSS.
Il 17 marzo 2011 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvò la risoluzione 1973, che mirava a proteggere la popolazione libica dalla repressione violenta delle aspirazioni di libertà che Gheddafi aveva scatenato da qualche settimana. Sfruttando la possibilità, prevista dal testo, di istituire sulla Libia una “No Fly Zone” «con tutti i mezzi necessari», il 19 marzo aerei francesi entrarono in azione su Bengasi, cuore della rivolta contro il regime. Per quanto unilaterale, l’azione francese sfociò in un conflitto generalizzato al quale parteciparono contingenti di 15 Paesi, compresi alcuni neutrali (come la Svezia) o non membri NATO (come EAU, Giordania e Qatar). L’Aeronautica Militare effettuò circa il 7% delle sortite complessive della coalizione, impiegando esclusivamente munizionamento di precisione, con una percentuale di obiettivi colpiti nell’ordine del 97%.
Le prime fasi, caratterizzate dallo svolgimento di tre operazioni parallele ma separate (Harmattan, francese; Ellamy, britannica; Odissey Dawn, statunitense, alla quale si agganciò anche l’Italia), furono rivolte alla disarticolazione dei sistemi di difesa aerea, alla quale contribuirono bombardieri strategici B-2 partiti dagli USA, F-16CJ decollati da Aviano e Spangdahlem, F-15E e Tornado britannici da basi nel Regno Unito, nonché 110 missili da crociera lanciati da sottomarini atomici. A questa fase l’Italia partecipò con quattro Tornado ECR-IT nonché, in modalità difensiva, con gli F-16ADF del 37° Stormo di Trapani; altri mezzi, sotto controllo nazionale, assicuravano rifornimento in volo e ricognizione elettronica. I vincoli politici, già evidenti nelle precedenti missioni internazionali, portarono a consentire l’impiego di armamento di caduta – di fatto bombe di precisione a guida laser o satellitare – solo a fine aprile, peraltro su obiettivi individuati in precedenza; l’uso su bersagli “dinamici”, cioè occasionali o non pianificati, fu consentito solo a metà agosto.
Aperta così la strada, fu necessario ripensare l’intera operazione – che, grazie in particolare alle pressioni italiane, dal 31 marzo transitò integralmente sotto comando NATO e assunse il nome definitivo di Unified Protector (OUP). Il mandato ONU restava infatti proteggere la popolazione civile, senza alcun accenno al cambiamento di regime. Di qui la necessità di eliminare danni collaterali e vittime civili (“zero CIVCAS” divenne il motto dell’operazione), ma anche di individuare obiettivi in grado di avviare le forze antigovernative verso una più o meno reale autoliberazione. La necessità di minimizzare i danni fece scoprire la riduzione delle dimensioni degli ordigni consentita da armi di precisione come il missile britannico Brimstone: meno esplosivo, meno danni collaterali. In alcuni casi si fece ricorso a corpi-bomba senza esplosivo, con effetto legato al solo urto contro il suolo o l’obiettivo. In compenso, l’approccio per così dire “indiretto” contribuì a prolungare le operazioni, con efficacia gradualmente decrescente anche per l’esaurirsi di obbiettivi idonei. Complice la riduzione delle scorte nei vent’anni post-Muro, alcune forze aeree giunsero a esaurire le armi di precisione e tutte videro compromessa la pianificazione delle ore di volo. Con tutto ciò, il convoglio di Gheddafi in fuga fu individuato da un aereo a pilotaggio remoto e colpito dai caccia francesi, dimostrando la validità del “targeting dinamico”.
Avendo applicato molte delle lezioni identificate nei cicli operativi precedenti, nonostante le ripetute riduzioni di bilancio e organici, durante OUP l’Aeronautica Militare fu l’unica forza aerea europea in grado di fornire (sia pure con numeri limitati) l’intera gamma di capacità per tutti i ruoli e le missioni da svolgere. A fronte della relativa facilità di reperire velivoli aerotattici per le missioni di attacco (i cosiddetti “shooters”) e caccia per la protezione diretta e indiretta, la campagna evidenziò il ritardo europeo nel dotarsi degli elementi caratterizzanti per le moderne operazioni aeree, dal rifornimento in volo (fornito, non senza difficoltà, soprattutto dagli Stati Uniti) alla soppressione delle difese aeree (SEAD/DEAD) fino all’ISR (con i Predator) e all’intera sfera elettronica.
Oltre a fornire Eurofighter, F-16ADF (trattenuti in servizio alla vigilia della scadenza del contratto di noleggio al quale aveva costretto il ritardo del programma europeo) e, nell’ultima fase, AMX, l’Aeronautica Militare poteva infatti schierare le nuove aerocisterne KC-767A, i Tornado nella configurazione ECR-IT (divenuti, dopo il ritiro degli F-16 statunitensi, gli unici velivoli SEAD dei quali la coalizione disponeva) e gli aeromobili a pilotaggio remoto Predator (per i quali si trovò il modo di farli coesistere con il traffico aereo civile di Catania-Fontanarossa).
Tra le lezioni di OUP identificate per l’Italia, la prima riguarda senz’altro la possibilità di influenzare il processo decisionale per limitare i danni di una situazione politicamente sfavorevole, qual era oggettivamente l’attacco ad uno dei propri principali partner commerciali. Oltre che dal ruolo italiano quale “portaerei naturale” nel Mediterraneo, tale possibilità – esplicitata principalmente attraverso la gestione della cellula Targeting presso il comando OUP – fu resa possibile dalla partecipazione di dimensioni e tecnologia comparabili ai Paesi maggiori e superiori a gran parte della coalizione. Anche in assenza di direttive politiche stringenti, fu così possibile salvaguardare dalla distruzione indiscriminata precisi interessi economici e industriali in Libia. La seconda lezione è la carenza di sistemi ISR comune a tutti i Paesi NATO europei, particolarmente penalizzante dato il vincolo “Zero CIVCAS”. La terza, la rigidità operativa derivante dall’uso di configurazioni diverse dello stesso tipo-base all’interno di forze aeree numericamente sempre più ridotte.
- Compiti, missioni future e struttura della forza
Le esigenze tecniche identificate attraverso l’analisi di oltre 20 anni di esperienza operativa debbono raccordarsi alle priorità politiche fissate dal Governo, attraverso il Ministero della Difesa, e alle Missioni (che sarebbero meglio definite come Compiti) assegnate al dicastero. Si tratta rispettivamente di operatività ed impiego dello Strumento militare, ammodernamento dello Strumento militare e razionalizzazione del modello organizzativo e miglioramento della governance e della Difesa e Sicurezza del Territorio (la cosiddetta “Missione 5”), declinata attraverso i Programmi 3 e 4 (approntamento ed impiego delle Forze Navali e delle Forze Aeree). [10]
La Difesa spiega le prime due priorità ricordando che l’operatività si ispira «agli accordi e impegni assunti in ambito internazionale, al rispetto degli standard di addestramento e interoperabilità delle forze e dei mezzi con i Paesi alleati» e che l’ammodernamento deve «garantire all’Italia forze per la difesa e la sicurezza flessibili e integrate, al passo con i Paesi alleati, oltre che accrescere i requisiti di “sicurezza “ e “protezione” del personale in zona di impiego». Sotto tali profili, gli impegni analizzati nella prima parte dello studio mostrano il successo del processo di adeguamento e trasformazione avviato dall’Aeronautica Militare all’indomani della guerra del Golfo (quando, per pura esemplificazione, non vi era armamento di precisione) e culminato con l’ottima prestazione complessiva nella campagna di Libia. Ciò significa che gli standard sono stati rispettati e che oggi si è effettivamente al passo con gli alleati, un risultato tanto più significativo in quanto il punto di partenza scontava un significativo ritardo e il recupero ha avuto luogo in un periodo di continui tagli di bilancio che hanno imposto una parallela riduzione della struttura, degli organici e dell’attività.
Quantunque da un punto di vista contabile-amministrativo i programmi siano ancora distinti tra le diverse Forze Armate, l’obbiettivo di una crescente integrazione interforze – e, prima ancora, la realtà di circa 20 vent’anni di operazioni – impone una visione più ampia. Lo stesso impiego delle forze speciali di superficie è strettamente connesso alla possibilità di infiltrarle ed esfiltrarle per via aerea, così come tali forze non possono prescindere dalla dimensione aerospaziale dalla quale dipendono per il flusso di informazioni e comunicazioni in tempo reale. Questo, a sua volta, impone di poter assicurare una cornice di sicurezza lungo l’intera catena, dalla protezione attiva dei velivoli da trasporto al recupero di eventuali feriti, dall’ascolto delle comunicazioni avversarie al disturbo e contrasto delle eventuali reazioni. Persino l’allungamento della portata operativa consentita dal rifornimento in volo presuppone la protezione, diretta e indiretta, delle aerocisterne. Tutto ciò si traduce nella necessità di mantenere i livelli raggiunti per disporre della capacità di svolgere attività di interesse nazionale in maniera autonoma, senza apporti internazionali la cui concessione non è automatica.
Se si passa dai compiti assegnati in via di principio al loro effettivo impiego operativo, è necessario ricordare come l’arco di sviluppo e impiego dei sistemi aerospaziali sia andato allungandosi di pari passo con l’aumento di prestazione e capacità. Se in passato i velivoli potevano non vedere alcun impiego reale nell’intera vita operativa, oggi tale probabilità appare remota. Altrettanto difficile appare ipotizzare che un sistema possa venire impiegato solamente come immaginato in sede di progettazione. Lo dimostra, tra gli altri, il Tornado, nato per la penetrazione a bassissima quota e poi impiegato a quote medio-alte con sistemi che neppure esistevano quando fu concepito.
Per lo stesso motivo è fuorviante immaginare che ogni crisi sia identica a quella precedente o che esista un’unica modalità d’impiego di universale applicazione in ogni scenario e contesto. Così come la vittoria-lampo nella prima Guerra del Golfo non si è ripetuta successivamente in Iraq e Afghanistan, così il ruolo contro-insurrezione in Afghanistan non si è ripetuto in Libia e non è dato sapere come sarebbe stato un eventuale intervento in Siria o in cosa potrebbe degenerare l’odierna crisi in Ucraina. Ciò rende difficile rinunciare a capacità sofisticate quali lo stealth (furtività o bassa osservabilità), vitali negli scenari simmetrici la cui fine è stata troppo frettolosamente proclamata sulla base della sola campagna afghana. La possibilità di rinunciare allo stealth, ad esempio con il trasporto di armamento esterno, è dunque decisamente asimmetrica rispetto all’impossibilità di dotarsene retroattivamente. La possibilità dei velivoli stealth di operare senza scorta diretta contribuisce, peraltro, a strutturare la forza aerea con una minor componente di caccia pura ovvero di destinarla prioritariamente alla difesa aerea, e rende possibile una minor dimensione complessiva delle forze aeree.
Due tendenze sono comunque indiscutibili. La prima riguarda la graduale riduzione delle dimensioni dei singoli armamenti da lanciare, resa possibile dalla precisione ma soprattutto spinta dal vincolo della minimizzazione dei danni collaterali. La seconda è il ruolo crescente della superiorità informativa, intesa come capacità di raccogliere, fondere e valutare dati per orientare l’azione nel modo più efficace per interrompere – non necessariamente con lo sgancio di armamento tradizionale. Per la sua complessità, la capacità di sensor fusion è l’essenza dei nuovi sistemi e appare difficile (e comunque costosa) da installare retroattivamente su quelli esistenti.
Due ulteriori punti cruciali riguardano gli sviluppi nella dottrina del potere aereo e nei concetti d’impiego, entrambi i quali dovranno probabilmente essere rivisti in modo radicale alla luce dell’esperienza post-Muro. Come in passato, le analisi in corso – che rispecchiano in parte la differente partecipazione dei singoli Paesi alle diverse operazioni – si tradurranno certamente in nuovi concetti, che a loro volta informeranno lo sviluppo di nuovi sistemi. La somma dei tempi di riflessione, del successivo ciclo decisionale (con i suoi diversi livelli nazionale ed europeo, nonché NATO e transatlantico) e di sviluppo tecnico sembrano però suggerire un orizzonte temporale piuttosto lungo e, comunque, non compatibile con l’esaurimento della vita a fatica e della validità tecnica delle attuali linee aerotattiche.
In una situazione di ristrutturazione per riduzione, oramai da considerarsi permanente anche per il contesto economico generale, il mantenimento delle capacità operative richiede dunque una flessibilità intrinseca basata sulla capacità di adattamento rapido, in larga parte attraverso aggiornamenti di software in luogo dei tradizionali programmi di modifica. Analogamente, il quantitativo ridotto di aeromobili in linea renderà improduttiva e dannosa la suddivisione in sotto-specialità numericamente modeste, con inevitabili difficoltà nel mantenere le capacità operative e soddisfare simultaneamente le esigenze addestrative e manutentive. Tali esigenze convergono verso sistemi avionici ad architettura aperta, che consentono aggiornamenti rapidi senza massicce sostituzioni di hardware, e dotazioni omogenee attraverso l’intera flotta. Pur restando la necessità di addestramento specifico per il personale, ciò consentirebbe il superamento delle distinzioni a livello di macchine tra i ruoli Caccia Bombardieri (CB), Ricognitori (R), Guerra Elettronica (GE), Electronic Combat Reconnaissance (ECR-IT), soppressione delle difese aeree (DEAD/SEAD), tradizionalmente assegnate a reparti distinti e con equipaggiamento solo parzialmente uguale anche a parità di piattaforma.
La maggior efficienza di tale approccio consentirebbe di compensare, almeno in parte, la ridotta dotazione numerica e di affrontare con maggiore flessibilità l’inevitabile imprevedibilità di scenari operativi in continua evoluzione.
La riduzione dei quantitativi acquisibili si traduce, parallelamente, nella riduzione dei potenziali fornitori, spinta dalla necessità di ripartire costi di sviluppo comunque elevati su produzioni numericamente meno rilevanti che in passato. La sostituzione del mercato domestico, che fino agli anni Sessanta era in grado di sostenere soluzioni nazionali, con le esportazioni si è dimostrata difficile da realizzare per tutte le industrie. Se l’industria europea non riesce a trasformare in contratti la selezione dei propri caccia di 4a generazione avanzata da parte di clienti internazionali, quella statunitense trova difficoltà a tenere aperte le linee di produzione dei propri F-15, F-16 e F-18 con il solo mercato d’esportazione. Dal punto di vista del singolo Paese o Forza Armata, ciò si traduce nell’opportunità di non essere l’unico acquirente (monopsonista) di un particolare sistema, del quale finirebbe per dover sostenere per intero i costi di sviluppo e sostegno senza poterli ammortizzare ripartendoli su una produzione sufficientemente ampia e duratura nel tempo. In questo scenario la stessa possibilità di potere in un secondo o terzo momento acquisire ulteriori quantitativi, ad esempio per sostituire le perdite, imporrebbe al monopsonista di farsi carico di impedire la chiusura delle linee di produzione per tutelarsi verso le proprie eventuali esigenze future.
- Conclusioni
È frequente presentare la storia militare come il rapporto tra offesa e difesa, un’astratta relazione di mossa e contromossa nella quale le battaglie reali si combattono con un tavoliere, regole, obiettivi e pezzi fissi come nella loro metafora scacchistica.
In questa visione la paralisi della Prima guerra mondiale si riduce a poco più dell’adozione delle uniformi grigioverdi al posto delle sgargianti divise ottocentesche, rese troppo visibili (e dunque vulnerabili) dall’introduzione della polvere da sparo senza fumo, che ripulì i campi di battaglia dalla nube grigiastra al riparo della quale Napoleone aveva manovrato magistralmente. L’equilibrio appena ristabilito lancia la ricerca di nuovi strumenti offensivi, a loro volta bilanciati dal corrispondente progresso difensivo, all’infinito, dai giavellotti alle protezioni balistiche individuali e dalla trireme alle mine magnetiche, dal cavallo di Troia ai “firewall” informatici.
Come ogni luogo comune, questa sorta di versione militare della gara tra il piè veloce Achille e la tartaruga ha qualche fondamento reale. Il suo limite maggiore è però l’assunto di situazioni rigide, nelle quali l’approccio è meccanicistico. Come appunto nel gioco degli scacchi, nel quale le poche e rigide variabili riducono la strategia a espressioni logico-matematiche gestibili da un calcolatore in grado di fare la mossa giusta attraverso l’esame sistematico di tutte le possibilità.
L’altra interpretazione, forse più corretta, è quella del rapporto tra tecnologia e strategia, o meglio di come la tecnologia offra alla strategia opzioni nuove e diverse per perseguire (e se possibile conseguire) gli obiettivi. Obiettivi, si può aggiungere, che variano da Paese a Paese, da momento a momento, in funzione di prospettive politiche, alleanze, scelte (per esempio energetiche). Rispetto agli scacchi, dunque, varia innanzitutto la geografia concreta dei singoli attori-Paese e della proiezione dei loro interessi (la scacchiera). La seconda grande differenza sta nell’asimmetria di punti di forza e vulnerabilità (le regole, ma al tempo stesso gli obiettivi). Cosa ancor più importante, la relazione tra gli elementi diventa instabile e difficile da inquadrare in schemi preordinati secondo soluzioni matematiche o deterministiche. Strategie e mezzi interagiscono tra loro, influenzando il reciproco sviluppo in funzione del risultato che si intende ottenere o, simmetricamente, per sfruttare un potenziale intrinseco. La disponibilità della macchina influenza il formarsi delle strategie, così come l’interpretazione degli scenari determina lo sviluppo delle tecnologie per attuarle.
A questo quadro generale si deve aggiungere l’ulteriore vincolo derivante dalle caratteristiche proprie dei singoli dominii o ambienti (terrestre, navale, aereo, spaziale). I rischi derivanti dalle operazioni di superficie in aree contestate sono, ad esempio, sostanzialmente immutati dall’antica Roma (si pensi a Teutoburgo, 9 d.C.) a Napoleone (con la guerriglia durante la lunga campagna spagnola, 1807-1814) alle guerre coloniali (Little Big Horn, 1876; Isandwlana, 1879; Adua, 1896) fino ai nostri giorni, per esempio in Somalia (1992-1993). Analogamente, una ricerca dell’U.S. Army ha mostrato che «le forze meccanizzate e corazzate passano tra il 90 e il 99% del tempo ferme. Quando sono a stretto contatto con il nemico, avanzano in genere alla velocità di circa cinque chilometri al giorno, più o meno come la fanteria. Nel corso degli anni vi sono state naturalmente delle eccezioni, ma lo studio conclude che negli ultimi quattro secoli, nonostante l’avvento del motore a combustione interna e dei cambiamenti ad esso legati, la velocità di avanzata al suolo non è cambiata in misura significativa.»[11]
Di fatto, la natura delle operazioni in superficie comporta una naturale tendenza a orientare il pensiero strategico – e dunque lo sviluppo tecnologico a monte dell’impiego – verso il contrasto diretto, al contrario delle operazioni aeree che privilegiano l’approccio indiretto. La distruzione (o, nelle applicazioni più recenti, la disabilitazione selettiva, anche temporanea o non letale) di reti di comunicazione, infrastrutture strategiche o depositi di carburante non collocati nell’immediata area d’operazioni sono altrettanti esempi di applicazioni precluse alle forze di superficie. Ciò non riguarda solamente le applicazioni di cosiddetto hard airpower ma anche quelle di soft airpower, nelle quali la superiorità tecnologica consente di effettuare operazioni che possono disinnescare le crisi, ad esempio mediante ponti aerei, l’evacuazione di emergenza o il recupero di ostaggi. Come ha sottolineato il tragico abbattimento del G.222 della 46a Brigata Aerea che trasportava rifornimenti a Sarajevo assediata (3 settembre 1992), anche per tali applicazioni non cinetiche è però necessario poter fornire una cornice di sicurezza anche nelle componenti indirette.
In conclusione, l’esigenza di una coerenza complessiva e di uno stretto coordinamento tra la dottrina operativa e la dotazione tecnologica è particolarmente importante per le forze aeree, ed è vitale per la componente aerotattica, alla quale è demandato il compito – non altrimenti realizzabile – di agire in profondità o in aree non contigue alle posizioni di schieramento iniziale. Ciò è vero tanto per la componente schierata su basi terrestri (oggi detta “convenzionale”) quanto per quella imbarcata, essendo indubbio che il livello operativo espresso vada rapportato solo alla tipologia di obiettivo o missione da svolgere.
In tale chiave, le principali caratteristiche suggerite dall’esperienza operativa post-Muro come fondamentali per le linee da combattimento del XXI secolo si possono riassumere come segue, con particolare evidenza per quelle che non possono essere introdotte retroattivamente (Cfr. Tab. 1).
Tab. 1 Velivolo aerotattico per il 21° secolo
Caratteristiche richieste
* non applicabili retroattivamente
Specifiche (Tecnico-operative)
- Bassa osservabilità (cd. Stealth) *
- Capacità ISR avanzate interne *
- Capacità di elaborazione e gestione automatica delle informazioni da qualsiasi fonte acquisite *
- Massimizzazione del carico utile senza degrado prestazionale o incremento segnatura *
- Software ad architettura aperta, per facilitare l’integrazione di nuovi sistemi e l’aggiornamento senza sostituzione di hardware *
- Capacità di operare in rete con altri sistemi di ogni ambiente (cd.“netcentricità”) *
- Decollo/atterraggio corto/verticale *
- Sistemi avanzati di scambio dati (cd. datalink)
- Radar a scansione elettronica
- Elettronica avanzata
- Armamento di precisione, di livello tecnologico non inferiore a quello della piattaforma.
Generali (Logistico-gestionali)
- Interoperabilità con Paesi amici
- Tempistica fasata con il ciclo di vita delle attuali linee operative
- Ampia produzione, per economie di scala (produzione, logistica, supporto, addestramento)
- Ampia produzione, per possibilità di gestione degli acquisti (rinvii, anticipi, eventuali riordini per sostituzione perdite etc.
Bibliografia e fonti
- Documenti ufficiali
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Ministero della Difesa. Il Nuovo Modello di Difesa. 1991
Ministero della Difesa, Nota aggiuntiva allo stato di previsione per la Difesa, edizioni 2001-2013.
Stato Maggiore Aeronautica, La dottrina dell’Aeronautica Militare. Lineamenti. 1998.
Stato Maggiore Aeronautica, Prontuario statistico-finanziario, edizioni 1995-2004.
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- Fonti internet
www.aeronautica.difesa.it
www.airpressonline.it
www.analisidifesa.it
www.cesmamil.org
www.difesa.it
www.dedalonews.it
www.flightglobal.com
- Interviste e colloqui
Gen. Mario Arpino *
Gen. Vincenzo Camporini *
Gen. s.a. Leandro De Vincenti *
Gen. s.a. Sandro Ferracuti *
Gen. s.a. Stefano Panato *
Gen. isp. capo Domenico Esposito
Gen. d.a. Giovanni Fantuzzi
Gen. d.a. Alberto Rosso
Gen. isp. Basilio Di Martino
Gen. b.a. Francesco Saverio Agresti
Gen. b.a. Gianni Candotti
Gen. b.a. Silvano Frigerio
Gen. b.a. Gianni Taricco
Gen. b.a. Antonio Urbano *
Col. Luigi Del Bene
* non più in servizio
Gli autori
Gen. s.a. Leonardo Tricarico
Presidente della Fondazione ICSA.
Già Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare (2004-2006), è stato Comandante della 5a Allied Tactical Air Force e vice comandante delle forze aeree multinazionali durante la guerra del Kossovo (1999) e Consigliere Militare della Presidenza del Consiglio (governi D’Alema, Amato, Berlusconi, 1999-2004).
Gregory Alegi
Consigliere scientifico della Fondazione ICSA.
Storico militare e giornalista, è professore a contratto di Storia delle Americhe presso la LUISS di Roma (dal 2006) e l’American Univeristy of Rome (dal 2014). È docente di Storia dell’Aeronautica presso l’Accademia Aeronautica (dal 1998) e di Aviation Management presso la LUISS Business School (dal 2008). È autore di numerosi libri e monografie.
[1] La sola tradizione aeronautica italiana – certamente non la più ricca in Europa – conta circa 300 tipi di aeromobili militari in servizio operativo, più altrettanti a livello sperimentale o prototipico. Cfr. G. Alegi, Aeronautica Militare: i velivoli, Roma, Aviator, 2013.
[2] Giuseppe Mayer, L’evoluzione del bilancio della Difesa dal 1975 ai primi anni ’90, Aeronautica Militare – Ufficio Storico, Roma, 1992.
[3] Pietro Armani, “Prospettive dell’economia italiana nel 1976”, conferenza alla 27a sessione del CASD, Roma, 1976.
[4] G. Mayer, op. cit., p. 57. Nessun accenno al punto nel pur valido lavoro di S. Beltrame sul CSD.
[5] Sulla crisi della giovane Aeritalia si vedano Guido Moltedo, E l’Italia prese il volo, Torino, UTET, 2010; Renato Bonifacio, Anni di Aeritalia, Roma, Nuovo Studio Tecna, 1991; Baldassare Catalanotto e Cesare Falessi, Aeritalia 1969-1989, Milano, Scheiwiller, 1989.
[6] In proposito cfr. Gianandrea Bussi e Edoardo Raucci, Pantere, GAE, Milano, 2001, pp. 219-220.
[7] Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man, New York, Free Press, 1992 (tr. it. La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992). Il concetto base era stato anticipato nel saggio “The End of History?”, pubblicato da The National Interest nel fascicolo dell’estate 1989.
[8] Dati parziali sull’attività sono stati diffusi dall’Ufficio Pubblica Informazione della Marina Militare con il comunicato n. 20 del 2 novembre 2011, ripresi poi in Andrea Tani, “Valutazioni politico-militari della campagna libica”, Rivista Marittima, aprile 2011. Cifre più dettagliate sono apparse in opere ufficiose quali Luigino Caliaro, Gli Harrier della Marina Italiana, Trento, GMT, 2012, pp. 56-58.
[9] F.S. Agresti, “Lezioni da Herat”, Air Press, luglio-agosto 2014, pp. 24-26.
[10] Cfr., tra gli altri, la Nota Aggiuntiva allo stato di previsione per la Difesa per l’anno 2014”, pp. II-3 e 4.
[11] Phillip S. Meilinger, 10 Propositions Regarding Air Power, tr. it., p. 22.